Inchiesta sulla straporca Nostra Signora Finanza
La più strategica infrastruttura di comunicazione del nostro Paese, la rete di telefonia fissa, in teoria pertinenza dello Stato italiano, è finita di recente nelle grinfie di uno fra i più ricchi fondi finanziari statunitensi: l’americana KKR (Kohlberg Kravis Roberts & Co).
La notizia, passata in sordina, rappresenta solo uno fra gli esempi paradigmatici di quanto e di come la finanza transnazionale – ma con centri di comando geopoliticamente situati - assuma un potere di condizionamento, per così dire alla fonte, nelle cosiddette “democrazie rappresentative” occidentali. Nelle quali i cittadini - il popolo “sovrano” - eleggono parlamenti che poi votano la fiducia a governi che dietro le quinte hanno, come veri soci di maggioranza, i “mercati”, di norma celati da sigle misteriose. Il sistema finanziario detiene i cordoni della borsa, e in una società in cui a contare davvero è chi si trova all’ultimo anello della catena del denaro, controllare la proprietà dei più importanti settori economici, muovendo masse di capitali superiori ai bilanci degli Stati, è il dato inoppugnabile che l’apparato militar-industrial-finanziario è il vero padrone delle nostre vite.
Partiamo dall’Italia, e per l’esattezza proprio dalla legge di bilancio, detta anche manovra finanziaria. Secondo i dati della Corte dei Conti, la prossima necessiterà di 21 miliardi di euro per le spese indifferibili e di altri 10-14 miliardi per il rientro dal debito che, secondo la nota formula, ci chiede l’Europa. A questa cifra già monstre bisognerebbe aggiungere la copertura per quasi 11 miliardi di taglio del cuneo fiscale, ovvero l’alleggerimento delle tasse in busta paga promesso dal governo Meloni. Arriviamo così a una quarantina di miliardi. Ma non è finita qui: al computo occorre sommare anche l’aumento della spesa militare (a favore della Nato), il rinnovo di alcuni bonus una tantum e i residui oneri del superbonus edilizio. Dove troverà i soldi, un governo che nel suo programma ha la flat tax e che, per bocca della sua capa, la sora Giorgia, considera la tassazione “pizzo di Stato”? L’unica presumibile via è ricorrere a una combinazione a cui siamo abituati da più di trent’anni: nuove privatizzazioni di beni e asset pubblici, riduzioni della spesa sociale spacciate per rigore e, naturalmente, la genuflessione ai compratori del nostro debito pubblico. Ovvero i fondi finanziari, nazionali e soprattutto stranieri, che gestiscono la leva di dominio in un’economia finanziarizzata: il risparmio privato.
Il quadretto rende bene, a nostro avviso, quella che si chiama finanziarizzazione. Non solo dell’economia, ma anche della politica. Perché è chiaro che avere l’ultima parola su un snodo così determinante per le comunicazioni, com’è la rete telefonica, significa avere un peso che non solo determina, ma addirittura pre-determina gli orientamenti di un governo. Di fronte a questi fatti (ripetiamo: fatti), suona come una beffa e uno sputo in pieno volto il patriottismo di facciata del governo italiano. Una vera e propria copertura, che nasconde l’affarismo di una finanza legata, nello specifico, agli Usa. Tanto per dire: presidente dell’istituto di analisi di KKR è quel David Petraeus, ex comandante americano in Afghanistan e Irak e già capo della CIA, che ogni tanto viene consultato dalla stampa italiana in qualità di oracolo esperto in geopolitica.
KKR, assieme a Blackstone, è al vertice della categoria dei cosiddetti private equity. Sono gestori che nel loro portafogli possiedono titoli e quote di vario tipo, solitamente specializzati nel rilevare imprese decotte, o bisognose di finanziamenti, tagliandone i costi (ossia licenziando), spolpandole e rivendendole a pezzi. Assieme agli hedge funds, i classici speculatori di Borsa, in gergo sono chiamati “cavallette” o “locuste”. Costituiscono una delle cinque tipologie in cui è suddivisibile il mondo finanziario, ovvero: le banche (tradizionali come Deutsche Bank o Unicredit e d’investimento come Lazard, Rotschild, Goldman Sachs), gli oligopolisti del web (Google, Apple, Microsoft, Meta, Amazon), le multinazionali digitali (Uber, Netflix, Deliveroo, Airbnb, ecc) e, ultime ma non ultime perché in realtà in cima alla piramide, le Big Three, i tre onnipresenti mega-fondi: BlackRock, Vanguard, State Street. Avendo come base gli Stati Uniti, questo trio di colossi allunga i suoi tentacoli ovunque, avendo in pancia uno sterminato numero di partecipazioni in aziende, banche, altri fondi, agenzie e ogni sorta di società, per un totale di 22 mila miliardi di dollari (pari al PIL degli Usa, ben di più di Europa e Cina). Costituiscono i terminali principali di filiere che si perdono nei meandri azionari. Lucian Bebchuk e Scott Hirst, due docenti di Harvard, hanno calcolato che nel 2020 le Big Three esprimevano il 25% dei diritti di voto in tutte le corporation quotate all’indice S&P 500. La caratteristica che salta agli occhi è il costitutivo conflitto d’interessi che le intreccia inestricabilmente: BlackRock è posseduta per il 14% da Vanguard, a sua volta posseduta per il 13,5% da BlackRock, mentre State Street ha BlackRock all’8,1% e Vanguard al 12,6%. Insomma, la più grande concentrazione di potere finanziario mai avvenuta nella Storia. I loro clienti compongono la vera élite del pianeta, la crème di coloro che hanno un patrimonio liquido di almeno 50-100 milioni di dollari: non solo persone fisiche, vale a dire i più facoltosi rentier del globo, ma soprattutto banche, fondazioni, assicurazioni, ecc.
Il più grande e potente dei tre è BlackRock. Presente a Wall Street, è leader mondiale sia negli investimenti che seguono indici di Borda come quello azionario, sia nei mercati agganciati a panieri di merci o materie prime. Gestisce 70 società in trenta nazioni ed è comproprietaria di più di ventimila fra imprese, istituti bancari e altri soggetti. Elargisce consulenze al governo statunitense, al Fondo Monetario Internazionale, alla Bce e alla Commissione Europea. Per la sua vertiginosa ascesa si deve ringraziare l’amministrazione di Barack Obama, che nella crisi del 2008 incaricò BlackRock di normalizzare il mercato creditizio coordinando la liquidazione di Lehman Brothers e Bear Steanrs e il salvataggio della compagnia assicurativa AIG. Fondata nella seconda metà degli anni ’90 da Laurence “Larry” Fink (inventore dei prodotti finanziari costruiti sulla cartolarizzazione dei mutui, i famigerati “subprime”), nel 1999 l’azionista di maggioranza risultava ancora essere una piccola banca di provincia, la Pittsburgh National Corporation. Nel 2005, quest’ultima acquistò la Riggs National Bank, istituto sconosciuto ai più ma parecchio noto agli addetti ai lavori perché depositario dei conti di 23 dei 45 presidenti degli Stati Uniti, nonché di quasi tutte le ambasciate straniere in Usa. Con sede legale in Delaware, paradiso fiscale a stelle e strisce dove si può fondare una società fantasma in pochi minuti e senza passaporto, la Riggs ha avuto un ruolo di primo piano nel riciclaggio di tangenti di oligarchi russi, funzionari sauditi e perfino, ai tempi, del dittatore cileno Augusto Pinochet. Ebbene: acquisita dalla Pittsburgh, la Riggs cessò di esistere. Ma la sua pregiatissima clientela, intessuta di relazioni ai più alti livelli, passò a BlackRock.
Le Big Three funzionano come fossero delle banche, specialmente sul versante equity. Cioè entrano nell’azionariato. Però non solo lo fanno in dimensioni ciclopiche (BlackRock, da sola, gestisce attualmente 10 mila miliardi), ma non essendo propriamente delle banche, non sono assoggettate alla regolamentazione e alla vigilanza a cui è sottoposto il sistema bancario. Investono soprattutto in farmaceutica (Pfizer, Moderna, Johnson&Johnson), digitale (Google, Apple, Meta, Snapchat, Amazon, Microsoft, Netflix), assicurazioni (United Health Group, Elevance Health, Prudential Financial e Centene Corporation), alimentare (Coca Cola, Pepsi, Heinz), pagamenti elettronici (Visa, Mastercard, PayPal), ovviamente nelle altre realtà finanziarie (come le già citate KKR e Blackstone), senza dimenticare le armi (sono presenti in Lockheed Martin, Boeing, Honeywell ecc). Ma non disdegnano nemmeno l’informazione: Fox, CNN, CNBC. E non hanno pudore nel controllare pure S&P Global Rating, Fitch e Moody’s, le agenzie di rating che emettono temutissimi giudizi sulle aziende e anche - cosa ben più rilevante - sui debiti pubblici degli Stati, influenzando lo spread, l’inflazione e, giù per li rami, i redditi e i consumi di tutti noi. Tornando al nostro caso iniziale, l’agenzia che dopo l’operazione con KKR ha promosso il titolo Tim provocandone la salita, è la S&P. KKR è partecipato da Vanguard. E Vanguard è azionista, insieme a BlackRock e State Street, di S&P. Il cerchio si chiude: il mercato è sostituito dall’oligopolio. O meglio: da un monopolio a tre teste. Il cerbero delle Big Three.
Se il guazzabuglio di nomi, cifre e fatti sin qui messi in fila possono dare un senso di stordimento e lasciare vuoti di comprensione, basterà citare un campo a tutti familiare: il cibo. I prezzi del mercato agricolo sono determinati nelle Borse merci: Chicago, Londra, Parigi, Mumbai. Esattamente come le Borse valori, si tratta di realtà non pubbliche, ma private. E indovinate chi sono i principali proprietari di quelle localizzate nell’emisfero occidentale, come Chicago e, in parte, Londra e Parigi? Ma sempre loro, naturalmente: BlackRock, Vanguard, State Street (e, occasionalmente, anche la banca d’affari J.P. Morgan, i cui maggiori azionisti, a ogni buon conto, sono sempre le tre di cui sopra). E non è finita. In queste piazze la stragrande maggioranza dei player borsistici non sono produttori agricoli: sono ancora loro, i mega-fondi, assieme ad altri specifici del settore, i quali non comprano e non vendono, ma si limitano a scommettere sulle movimentazioni dei prezzi. In italiano: speculano. Di qui i sobbalzi o cali repentini che avvolgono in un’aura di fatalità inspiegabile l’instabilità dei prezzi. Ma ci saranno pure – direte voi - dei produttori reali. Certo: sono una manciata di grandi società, la Cargill, la Bunge, la Archer-Daniels Midland e poche altre. Le ultime due, in particolare, rientrano, ma tu guarda, nei pacchetti azionari delle omnipervasive Big Three. Tanto omnipervasive che le ritroviamo pure nell’azionariato delle multinazionali alimentari: Kellogg’s (in cui BlackRock e Vanguard sono entrambe al 9%, e State Street a quasi il 4%), Mondelez (Vanguard al 9,1, BlackRock al 7,3, State Street al 4,4), Associated British Foods (State Street al 4, Vanguard all’8,5 e BlackRock al 7%). E ci fermiamo qua: il concetto dovrebbe essere chiaro.
Sul piano politico, la galassia finanziaria di cui stiamo parlando ha un rapporto di collateralismo con Stati precisamente identificabili. Al primo posto, va da sé, gli Usa, capofila del mondo “libero”. In realtà, un Paese al collasso: finanziario, ma anche sociale, morale, sanitario. Hanno raggiunto un deficit record di 1.915 miliardi di dollari, pari al 6,7% del Pil, in buona misura derivato dai sostegni federali alle banche e alle spese militari. Si reggono in piedi grazie ai debiti contratti con il resto del mondo, attestati a oltre 21 mila miliardi. Deficit ed esposizione entrambi finanziati con alti tassi di interessi, che attraggono il risparmio estero in forza del dollaro, pompato artificialmente come una droga. È grazie al ruolo di valuta di scambio mondiale che le baionette del Pentagono assicurano al dollaro, che il capitalismo di Wall Street riesce a mantenersi in piedi. Anche se con fatica e dispendio sempre maggiore. Di qui, ad esempio, la reiterata richiesta di Donald Trump di far sborsare più quattrini per la Nato agli alleati-sudditi europei. E di qui, comme d’habitude, scatenando guerre a destra e a manca, vedi conflitto per procura contro la Russia a mezzo Ucraina. Ma di qui anche la funzione essenziale dei grandi fondi di cui sopra, che per ogni operazione ricorrono, da bravi nipoti dello Zio Sam, ai bigliettoni verdi. In pratica, è mediante l’uso imperiale della moneta, fondato su una politica imperiale e sull’espansione dell’alta finanza, che il Paese-modello d’Occidente non crolla come un castello di carta (straccia). Quella che viene ipocritamente definita “economia reale”, dal canto suo, sopravvive grazie a due elementi: le migliaia di miliardi di interventi pubblici (Inflation Reduction Act), coperti dall’abnorme debito galleggiante sulle spalle dei risparmiatori di mezzo mondo, e i dazi doganali, specie nei confronti dei prodotti cinesi. Scaricare l’indebitamento all’esterno e ricorrere contemporaneamente al protezionismo è la miscela, esplosiva, di cui Washington ha necessità vitale per drenare più risparmio internazionale possibile. Ed è in questo passaggio che i fondi hanno il compito nevralgico di fare da incanalatori di denaro. Ecco dove sta il loro collateralismo, quella relazione simbiotica con l’ammaccato imperialismo Usa. Potremmo dire che la finanza, assieme all’esercito, è il braccio armato di un Impero che si regge sullo sfruttamento usuraio dei Paesi “alleati”, che altro non sono che colonie.
L’8 giugno 2024 l’amministratore delegato di BlackRock, Larry Fink, dall’alto dei suoi 25 milioni di euro di stipendio-base annuo ha fatto graziosamente sapere sul Corriere della Sera che il male della politica in Italia è il mix di populismo, protezionismo e inflazione. Il profeta della speculazione “buona”, “democratica” e “green” esorta l’Italia ad affidare risparmi e pensioni alla mano, tutt’altro che invisibile, del Mercato. Cioè a lui, e agli altri allegri compari della brigata finanziaria. Fa gola, la miniera di 170 miliardi di euro dei fondi pensione italiani (per tacere dei 900 miliardi di riserve tecniche delle assicurazioni). Resistono e lottano in mezzo a noi anche gli speculatori più tradizionali, diciamo. Quelli che giocano sulle plusvalenze del saliscendi di titoli e valute: il più famoso, l’hedge fund Quantum, è del celebre George Soros, altro beatificato in vita per le mirate donazioni da parte della sua Open Society, fondazione che finanzia tutti coloro che hanno la grave colpa di non allinearsi agli interessi occidentali, camuffati dall’etichetta della popperiana e liberale “società aperta”. C’è poi l’uomo più ricco della Terra, Jeff Bezos, che ha basato le fortuna della più grande impresa di distribuzione mai esistita, Amazon, in sostanza aggiornando il sistema di schiavitù salariata di cent’anni fa, la catena di montaggio fordista, spremendo i lavoratori con il cronometraggio al minuto, anche quando vanno al cesso. C’è Elon Musk, altra star simbolo del narcisismo social, che dalle auto elettriche Tesla e da X, l’ex Twitter, vorrebbe lanciarsi nel futuro transumano dei microchip da impiantare nel cervello. In buona compagnia, in questo delirio tecnofilo, con un altro venture capitalist della Silicon Valley, Peter Thiel, l’ultra-liberista patron di Palantir. Quest’ultima è un’importante fornitrice di software per l’intelligence americana e per il Pentagono, incaricata, fra l’altro, di contrastare la diffusione online di Wikileaks di Julian Assange. Thiel e Musk hanno fondato SpaceX, sognando di trasportare l’élite globale su Marte (a tal proposito, il finale del bel film “Don’t look up”, satira assolutamente veritiera della mentalità di questi malati di ego, può fare da augurio, sia pur in negativo).
Rimangono enormi zone d’ombra. Quanti, per esempio, sanno che il primo socio della Rotschild, la banca numero uno al mondo in acquisizione e fusioni, è l’’ignota Jardine Matheson Holdings, società con sede operativa a Hong Kong e legale alle Bermuda? E quanti sanno che il 69% degli hedge funds è domiciliato alle Isole Cayman, parte del territorio britannico? Alzi la mano, poi, chi è a conoscenza del fatto che sette società, dicasi 7 società, valgono da sole quasi il 38% di tutte le quotate di Wall Street, una configurazione che non ha precedenti e non ha alcun riflesso nella realtà produttiva. Una di esse è Amazon. Ora, chi metterebbe sul piatto 2 mila miliardi per comprarsi Amazon? Nessuno. È tutto totalmente scollegato dal reale. Un’impostura. Una frode legalizzata e per giunta venerata, osannata, sacralizzata.
Non bisogna, infine, sottovalutare l’aspetto ideologico. Il capitalismo odierno, finanziarizzato, piramidalizzato, virtualizzato, è sempre più woke capitalism. Si ammanta, cioè, di buoni propositi: sociali, ecologici ed etici. Usa la moralità come risorsa d’immagine per continuare a perseguire la sua sola ragion d’essere: la massimizzazione del profitto. È il woke washing: l’autolavaggio dei peccati, per far apparire candido e innocente il business di imprenditori, finanzieri e giocatori di Borsa i quali, come si è visto, sono impastoiati in ogni genere di attività, ben lungi dall’avere il bene comune o l’interesse dei meno abbienti come bussole. La legge ferrea del wokismo economico è la seguente: estrarre valore dalle tendenze progressiste di maggior risonanza (diritti civili, orgoglio lgbtq+, uguaglianza di genere, green economy, lotta alla povertà, ecc) trasformandole in spot pubblicitari, mascherando in tal modo il rifiuto di cambiare le strutture e logiche del potere capitalistico. Uno schema che trova il suo puntello nell’ideologia ammanita al consumatore medio: “sii te stesso”, “pensa con la propria testa”, “rompi le regole”. E magari impegnati pure per la pace e per i deboli, così da salvarti la coscienza. Tutti luoghi comuni sentimentaloidi strumentalizzati a fini commerciali, che finiscono con l’alimentare il vuoto e la sostituzione dei valori comunitari con surrogati con sopra appiccicato un bel brand aziendale. Potremmo dire che si è avverato appieno il progetto egemonico di Margareth Thatcher: cambiare “il cuore e l’anima” utilizzando “l’economia come mezzo”. Perché l’economia fa da filtro a tutto. Avviene così che i cambiamenti socioculturali vengono trasformati in tendenze di mercato, con il marketing a fare da vero Intellettuale Collettivo.
Sebbene lo sconfortante quadro delineato in queste righe sia stato già più volte descritto e sviscerato, in questi trent’anni di ideologia unica del mercato nessuno ha mai elaborato una contro-prospettiva realmente incisiva, per lo meno a livello progettuale. Non esiste, a tutt’oggi, una vera e propria piattaforma complessivamente alternativa, abbastanza credibile per essere recepita a livello globale. Naturalmente, nei decenni addietro non sono mancate le proposte avanzate da associazioni, sindacati, forze politiche in tutto il mondo. Né tanto meno gli appelli di economisti sempre prodighi nell’immaginare riforme e provvedimenti di sapore accademico. Perfino lo stesso establishment, trincerato in istituzioni come FMI, WTO e Banca Mondiale, di tanto in tanto sente il bisogno di rifarsi una verginità lanciando l’allarme di rito sull’immoralità della finanza, che nonostante il crack del 2007-2008 ha ripreso a macinare i diabolici “derivati”, oggi saliti alla mostruosa soglia di 630 mila miliardi di dollari, numero che si fa fatica anche solo a visualizzare mentalmente. Ma se si va a vedere, si scopre che le varie proposte formano una congerie di idee, quasi tutte buone se non ottime, e pur tuttavia isolate, parziali, oscillanti fra i generici auspici e le misure astrattamente tecnicistiche. Per completezza, ne elenchiamo qualcuna.
1) Tobin Tax. È la proposta più celebre. In qualche Stato, sia pur parzialmente, è stata applicata. Si tratta di una tassa sulle transazioni finanziarie ideata dal premio Nobel per l’Economia James Tobin nel 1972. Nel 2013 l’imposta è stata introdotta in Italia, ma con un’aliquota ridicola: attualmente, appena lo 0,20 per cento sul saldo di fine giornata. Acquisterebbe diversa efficacia se applicata come minimo in tutta l’Unione Europea, per contenere la fuga di capitali, scorciatoia che può annullarne gli effetti.
2) Ridurre la leva finanziaria delle banche “too big to fail” (troppo grandi per fallire). La Bce, con il trattato Basilea 3, ha fatto passi in avanti, imponendo una maggiore patrimonializzazione agli istituti creditizi. Ma come abbiamo visto, la giungla dei fondi non è tenuta a rispettare regole e sanzioni valide per le banche ordinarie. Ergo, un’altra mezza sóla.
3) Tornare alla distinzione, opportunamente adottata negli Usa all’indomani della crisi del 1929, fra banche di credito e banche d’affari.
4) Abolire, o quanto meno circoscrivere drasticamente i pestilenziali derivati (credit default swap CDS, obbligazioni di credito collateralizzate CDO, credit-linked notes CLN), impedendo alle banche di fare trading in proprio attingendo ai depositi della clientela.
5) Abolire e vietare le enclaves off-shore, i “paradisi fiscali”.
6) Prevedere un tetto dimensionale alle società finanziarie di qualsiasi tipo, eliminando strutturalmente la possibilità che si formino enormi agglomerati di cui il triumvirato BlackRock-Vanguard-State Street rappresenta l’estremo esito finale.
Il motivo della sostanziale inconcludenza di questo benemerito utopismo sta nel fatto che la finanza fuori controllo non è un problema tecnico: è un problema politico. Per venirne a capo, servirebbe modificare i rapporti di forza negli Stati che ne sono contemporaneamente protettori, beneficiari e dipendenti. Detto altrimenti, è necessario cambiare le condizioni che ne assicurano la posizione di imperio e privilegio. E questo in linea di principio si può fare solo con la lotta politica, non si scappa. Lotta utopistica, certo, visto che l’avversario ha mezzi spropositati per mettere a tacere ogni eventuale opposizione. Un’altra via, però, non risulta esserci. L’imprescindibile punto di partenza è comprendere che la finanza - di cui nostro malgrado, o in parecchi casi lanciando la nostra monetina alla roulette, siamo noi i primi favoreggiatori, più o meno ignari - non è un’entità divina scesa dal cielo, né la risultante di un’evoluzione naturale dell’uomo. È un sistema di dominio che ha i suoi quartier generali in determinati Paesi, la solida e smisurata base mediante la quale si sostiene la gerarchia sociale, che vede dei ricchi sempre più ricchi e potenti in alto, e i poveri e spossessati sempre più soggiogati e ricattati in basso. Il tutto spacciando il suo lato oscuro di ingiustizia primitiva come il frutto ineluttabile, e tutto sommato accettabile, della nostra civiltà, dipinta come Eldorado dell’individuo illusoriamente sovrano. Sovrano, sì: di consumare, indebitarsi e abbaiare alla luna. Il servo ideale di Nostra Signora la straporca Finanza.
Alessio Mannino
giornalista e scrittore