Come insegna l’amico Venceslav Soroczynski, “il racconto è, in letteratura, l'unità, come il metro lo è nella misura e la felicità nell'esistenza”. E allora, riprendiamo, in esclusiva su In-Chiostro, la pubblicazione dei racconti del nostro Vagabondo delle Stelle, Federico Mosso.
Bazar Express: Persepolis
Persepoli – città di Persia, fu una delle antiche capitali dell’Impero achemenide, edificata da Dario il Grande, intorno al 500 A.C. Il luogo dove sorge, non distante da Shiraz, è impervio e roccioso. Non fu una vera città in senso stretto, bensì un complesso di terrazze, palazzi, statue, templi adibiti a simbolo della magnificenza imperiale, una cattedrale nel deserto a fini cerimoniali, per i re dei re che così vollero il loro monumento eterno di roccia e colonne.
Nel 330 A.C. Alessandro Magno, appena ventiseienne, la conquistò e la saccheggiò. Secoli di oblio e di sabbia, hanno preservato le rovine nel tempo.
Oggi naturalmente si può visitare, e ben forniti di immaginazione, si prova a calarsi nel passato remoto, a salire la Grande Scalinata assieme agli ambasciatori dei regni d’Asia mentre squilli di tromba annunciano l’arrivo delle delegazioni straniere, a passare attraverso l’imponente Porta di Serse o Porta di tutte le Nazioni tra i Lamassu assiri con il corpo massiccio di toro, le ali e la testa umana e barbuta, e poi entrare nel palazzo delle Cento colonne, dove gli imperatori hanno il trono, e guardare dignitari giunti da ogni angolo dell’impero, con le loro lunghe vesti e le barbe ingioiellate, gli occhi neri e il profumo inebriante di bracieri, e le schiave del sesso di ogni carnagione dai seni nudi, l’oro e le cerimonie, il potere della terra che incontra il potere divino.
Poco distante il sito, dietro i gabinetti, arrugginiscono tristi gli scheletri metallici di una grande tendopoli. Erbacce e voluto abbandono, conferiscono a quella strana passeggiata un sapore sinistro, un’atmosfera post-atomica. Ma che diavolo ci fanno lì quei recenti rottami, così fuori luogo in uno dei punti archeologici più importanti del mondo?
La storia di quella ruggine merita di essere raccontata.
1971, Iran dello Scià di Persia, Mohammad Reza Pahlavi, secondo monarca della dinastia Pahlavi. La corona ha grandi ambizioni, così come ci ricordano i potenti titoli di cui si fregia Reza Pahlavi. Maestà Imperiale. Re dei Re. Luce degli ariani.
Vuole osannare la sua grandeur con una cerimonia mai vista prima, una celebrazione che ha la presunzione di rimanere scolpita nella storia come un evento epico. L’occasione arriva dall’anniversario dei 2500 anni della fondazione dell’Impero Persiano: ah, il calendario è favorevole a Reza, il pretesto è ghiotto per far vedere a tutto il mondo di cosa è capace il suo nuovo Iran.
Lui, che è figlio di Reza Khan Pahlavi, ufficiale della Brigata cosacca persiana che prese il potere con un colpo di stato nel 1921, si fece incoronare Scià, e fu destituito dagli anglo-americani per ragioni di strategie belliche e petrolifere, sente scorrere nelle sue vene il sangue di Ciro il Grande, signore di Babilonia e dei quattro angoli del mondo. È così, il destino lo vuole, Persepoli, vestigia del glorioso passato, sarà il palcoscenico di una grande festa. Le trombe sulla Grande Scalinata squillano di nuovo dopo 2500 anni.
Ci vuole più di un anno per preparare tutto. Inizialmente si pensa ad organizzare la cosa a Shiraz, ma gli alberghi non sono assolutamente in grado di ospitare individui di tal rango, le strade sono un disastro e potrebbero sorgere problemi di sicurezza. Allora si costruirà per l’occasione una struttura adiacente alle rovine di Persepoli. La zona del sito archeologico è zeppa di serpenti velenosi e scorpioni mordaci. Non si fa una bella figura se le nobili chiappe di qualche principessa europea venissero pizzicate da una bestia del deserto.
I responsabili del comitato organizzativo cominciano a tremare, dicono al potente visir Mister Alam, ministro di corte e uno dei consiglieri più vicini a sua maestà imperiale, che l’evento non si può fare, deve essere cancellato.
“Eccellenza, non spedite gli inviti! Non riusciremo mai per tempo!
E Mister Alam risponde, con gocce di sudore sulla fronte:
“Impossibile. Gli inviti sono stati già mandati e ricevuti. Non si può tornare indietro. Se fallirete, ucciderò con la mia pistola ognuno di voi, e dopo che vi avrò uccisi tutti, mi sparerò in testa. Fatelo o morite!”
Si procede con la bonifica di gran carriera senza ulteriori indugi.
La disinfestazione non avviene solo per le bestie pericolose, ma anche contro gli esseri umani. La terribile SAVAK, famigerata polizia segreta dello Scià addestrata da CIA e Mossad, s’adopera per ingabbiare preventivamente i possibili guastafeste. Oltre un migliaio di persone finiscono nelle carceri-macellerie degli sbirri di regime, torturatori e aguzzini. Pulizia tra le rocce, pulizia nelle strade.
Lo studio di architettura Maison Jansen di Parigi, trés chic, è incaricato di realizzare la Golden City, una spianata di 50 tende extralusso, dotate di ogni comfort come aria condizionata e toilette in marmo, e circondate da un bosco di alberi piantati nelle settimane precedenti nel deserto. Per la realizzazione della tendopoli, che vista dall’alto appare come una gigantesca stella attorno ad una fontana che zampilla acqua rarissima a quelle latitudini, gli architetti francesi si sono ispirati alla storia cinquecentesca europea, con i suoi accampamenti reali. Prendono come modello il Campo del Drappo d'Oro di Francesco I di Francia, una prova di fasto senza precedenti per impressionare Enrico VIII d’Inghilterra. D’accordo, tutto ciò è molto ambizioso, ma le Fiandre del XVI secolo sono una cosa ben diversa dalla dimensione asiatica e rocciosa dell’arida regione di Fars negli anni Settanta del Novecento. Mah, qui pare uno strambo pot-pourri storico, kitsch e un poco allucinante. Cos'è quella roba, un miraggio? No, possiamo sfregarci gli occhi quanto vogliamo ma è reale. Inoltre, se andiamo a leggerci la storia dell’incontro tra Francesco I ed Enrico VIII, comprendiamo che lo sfoggio non ebbe i risultati sperati, i rapporti tra Inghilterra e Francia peggiorarono ben presto. Il Campo del Drappo d’Oro porta scalogna.
Ora tocca a noi farci un giro oltre cinquant’anni fa. Affittiamo un frac, e imbuchiamoci alla festa. 12 ottobre 1971, inizio dei festeggiamenti.
Incredibile, lo Scià ha preteso 250 limousine rosse Mercedes per fare la spola aeroporto – Golden City e accompagnare gli ospiti. I più importanti tra loro vengono personalmente accompagnati da sua maestà con la Rolls-Royce di palazzo. Gli invitati giungono da tutti i continenti: capi di Stato, ministri, ambasciatori, re e regine, principi e principesse, dittatori, duca-conti, emiri, sultani e sceicchi, guardiamoli scendere le scalette dei jet privati e degli aerei istituzionali, accolti dalla fanfara militare, da fiori e tappeti rossi, occhialoni scuri, doppiopetto di sartoria londinese, tailleur pastello d’atelier, collier e diamanti, baci e abbracci elitari. Ospite di riguardo, amorevolmente intrattenuto dall’imperatrice Farah, è il negus neghesti Hailé Selassié, ultimo imperatore d’Etiopia, l’unico partecipante che possa vantare un titolo di pari rango con il padrone di casa. Il Negus e lo Scià, ambedue sulla strada del declino; la “Luce del mondo” e la “Luce degli ariani” si spegneranno da lì a poco.
Nella Golden City gli illustri vengono accompagnati nelle loro nobili tende, invero dei prefabbricati ricoperti da tela, infatti non immaginiamoci esotismi di tappeti, cuscini, e narghilè-shisha, ma divani europei, tappezzerie pregiate e modernissime comodità; salutiamo il re Federico IX di Danimarca che fuma la pipa e la regina Ingrid che sorseggia il tè, in un momento di relax all’ombra della veranda, mentre il principe ereditario Ciro sfreccia sulla golf car e fa ciao ciao con la manina.
Ma il momento clou che davvero aspettiamo è la sera del 14 ottobre, l’apice di tutto lo spettacolo. Oggi è il compleanno dell’imperatrice Farah, e un party, anzi IL party, o meglio il party dei party del re dei re, sta per iniziare nella grandiosa sala dei banchetti. Quello che sta per essere visto e soprattutto assaggiato, è una sontuosità da Guinness dei primati.
Container colmi di porcellane di Limoges, 47 chilometri di seta, 18 tonnellate di cibo, 180 camerieri, 12.000 bottiglie di whisky, 25.000 bottiglie di vino, 60.000 soldati, milioni e milioni di dollari nel camino. 50.000 uccellini vengono importati dal Vecchio Continente, per fare la fauna della finta foresta creata artificialmente. Poverini, sono volatili mica tanto abituati al clima torrido, stramazzano al suolo, stecchiti dal sole. Pioggia di canarini cadavere sul green del campo da golf.
Le code del nostro frac svolazzano per il forte vento del deserto, una tempesta di sabbia si sta sfogando nella zona, l’atmosfera è surreale con tutte le palme che danzano scosse dall’aria, e i drappelli di potenti che si sbrigano a fare il loro ingresso prima che le complesse pettinature delle dame vengano irrimediabilmente sconvolte. Entriamo anche noi nel mega tendone dei banchetti, lo Scià Pahlavi, dritto e in alta uniforme, ci stringe la mano (pare scrutarci sospettoso, ma questi chi sono?), facciamo il baciamano alla bella imperatrice, dribbliamo papaveri di stato e soprattutto gli orchi della sicurezza, e prendiamo posto.
Il tavolo d’onore è un serpentone dove sessanta pezzi grossi prendono posto. Scherza il duca d’Edimburgo Filippo (sua moglie la regina Elisabetta è rimasta a casa per motivi di sicurezza – questa la scusa) con Ranieri di Monaco. Grace Kelly è al solito molto affascinante. Il vicepresidente americano conversa vivace con gli emiri del Golfo, chissà di che parlano ... Per bilanciare la geopolitica da party, il Presidente del Presidium del Soviet Supremo dell’URSS Nikolaj Viktorovič Podgornyj confabula con il presidente dell’India. Occhiatacce dai delegati di Cina. La filippina Imelda Marcos è ipnotizzata sulle belle scarpe della regina Fabiola del Belgio. Il Conducător Nicolae Ceausescu con la consorte Elena studia il valore delle posate d’oro. C’è anche Tito, noi italiani gli abbiamo dato pure un’onorificenza al merito a quello lì (questioni anche di FIAT e di Agnelli). Mobutu dallo Zaire e Suharto dall’Indonesia, ambedue in copricapo - ma quello di Mobutu è in pelle di leopardo - discutono sui modi migliori per annientare i comunisti. Guarda un po’, abbiamo anche il nostro presidente del Consiglio dei Ministri Emiliano Colombo, tenuto a debita e repubblicana distanza da Vittorio Emanuele di Savoia e Marina Doria che chiacchierano en français con il futuro re di Spagna Juan Carlos e la principessa Sofia, e pure assieme al superporporato cardinal Maximilien de Fürstenberg. Il principe Vittorio Emanuele è amico intimo dello scià: gli vende molti elicotteri da guerra marca Augusta.
E in questo delirio di potenti e teste coronate non stonerebbe la buffa presenza del ragionier Ugo Fantozzi e dell’amico collega Filini, invitati con un’abile mossa padronale al tavolo della contessa Serbelloni Mazzanti Vien dal Mare, e come portata principale, il temutissimo tordo.
Parliamo per l’appunto del menù, preparato apposta dal celebre ristorante Maxim’s di Parigi, e osserviamo quelle bocche importanti aprirsi con le labbra unte per divorare bocconi di uova di quaglia con caviale Beluga del mar Caspio, mousse di gamberi e bechamel, arrosto di agnello con tartufo servito su vassoi decorati con inquietanti teste mozzate di muflone dalle corna a spirale che ci guardano fisso negli occhi, sorbettino di champagne, cinquanta pavoni arrosto (antico simbolo dell’Iran, ora sbranato) ripieni di foie-gras (!!!) con contorno di quaglie arrosto, noci e tartufi (!!!), e per dessert fichi con panna, crema di Porto e champagne, gelato al lampone. Viene un principio di gotta solo ad immaginarsi la cena. Le bevande, ubriachiamoci di lusso: champagne Moët & Chandon e Dom Pérignon, Château Haut-Brion Blanc 1964, Château Lafite Rothschil 1945, Borgogna Musigny Comte Georges de Vogüé 1945, cognac Prince Eugene of Savoy. E per il brindisi imperiale, in onore di Farah, si alzano centinaia di calici con preziosissimo Dom Pérignon Rose 1959 riserva vintage, il meglio del meglio che frizza estrema ricchezza dentro il cristallo di Boemia con lo stemma dei Pahlavi.
Non ancora soddisfatti dopo cinque, dico cinque, ore di banchetto, lo Scià obbliga tutti ad assistere allo spettacolo di luci, musica e fuochi d’artificio dalla terrazza di Persepoli; le colonne e le statue della Persia che fu vengono illuminate da strobo e flash fantascientifici da astronave, e accompagnate da suoni infernali. È una colonna sonora audio-visiva commissionata apposta al compositore-ingegnere franco-greco Iannis Xenakis. Doveva essere un’avanguardia elettronica, ma invece è un lungo lamento di agonia, incomprensibile, cacofonica, sgradevole e minacciosa. Aiuto, portatemi del whisky, presto!
Gli ospiti e noi, barcollanti dalla maratona enogastronomica, sopportiamo quel raffinato supplizio, sapendo che non sarà nemmeno l’ultimo. L’indomani difatti c’è la parata militare, spaventosa. Sembra un’allucinazione collettiva.
6.000 soldati sono costretti ad indossare costumi d’epoca, da antichi persiani. Parrucche, barbe finte, scudi, lance, gambali. Sono ridicoli quegli ufficiali conciati come guerrieri di 2.500 anni fa che mimano come marionette cretine le movenze dei bassorilievi, come in una danza scema di un bizzarro video musicale pop. Culmine dello show, alcune gigantesche navi scorrono sul cemento: sono dei carri carnevaleschi che scimmiottano l’antico, adatti ad una festa di paese nella provincia americana, o ad una puntata dei Simpson. Verrebbe da sorridere, se non fosse che si sta sotto un sole diventato feroce e che pare voglia punzecchiare quegli insolenti con i suoi raggi di fuoco. Gli organizzatori hanno pensato a tutto, ma non ad un tendone per proteggersi dal cielo, che mostra il suo disappunto arroventando teste. Le dame aprono gli ombrellini, i signori sudano sotto i cilindri e i cappelli da ufficiali; c’è da collassare. Il caldo è boia, e sotto sfilano i carri da guerra di Ciro il Grande in plastica e gommapiuma, tra battiti di tamburo e il suono acuto delle trombe. Assurdo. È un circo.
Ma se ci svegliamo da quel sogno vivace di potere e oro, dobbiamo fare i conti con la dura realtà che esprime un severo giudizio storico.
La cerimonia per i 2500 anni della fondazione dell’Impero Persiano è stata una grande pacchianata. Una roboante esagerazione, molto costosa. Mr. Alam, il ministro di corte dichiara che il baraccone costò 17 milioni di dollari. Un altro organizzatore alza la posta a 22 milioni. Altri calcoli più sinceri, arrivano fino a 200 milioni, addirittura si ipotizza un mezzo miliardo di USD di allora, una cifra galattica oggi. E non sono soldi personali del patrimonio dello Scià, o del tesoro della corona, ma moneta statale, delle casse nazionali, usate per il galà invece che per infrastrutture di pubblica utilità, come scuole o ospedali. Uno spreco enorme e volgare, uno schiaffo al popolo iraniano, che si sente offeso. Inoltre, non è stata una festa dell’Iran e del suo popolo ma un festeggiamento esclusivo del potere, un’autocelebrazione dello Scià e della sua corte indiamantata, un atto di megalomania. A Persepoli ci sono i grandi della Terra e i re stranieri ma non ci sono i persiani, volutamente esclusi. È come se i Pahlavi avessero voluto costruire un’isola fittizia per loro e per pochi accoliti, ben separata dal resto della società; un’isola in un mare nero di petrolio. Perché alla fine è quello l’elemento che porta tanti potenti lì a radunarsi: l’oro nero e l’importanza geopolitica del carburante che muove tutto il mondo moderno. Petrolio. Da succhiare. Per abbeverare il progresso. Da rubare. Per arricchirsi infinitamente, come ha fatto Reza, monarca multimiliardario, prima quasi illuminato, poi despota con presunzioni divine. La pantagruelica festa di Persepoli è culto dello Scià, non culto della nazione Iran e del suo popolo. Un’opera teatrale tragicomica con un solo attore vanaglorioso sul palco, nel tentativo, non riuscito, di dare una continuità fasulla all’epico passato dei re persiani con il suo impero filoccidentale.
Per rendere l’evento immortale, si chiama in causa nientepopodimeno che il regista americano Orson Welles, che in cambio di finanziamenti al suo fallimentare progetto cinematografico The Other Side of the Wind presta la sua voce profonda e corposa al documentario Flames of Persia. Qua di seguito alcune immagini doppiate da Orson Welles, durante il solenne discorso dello Scià rivolto alla tomba di Ciro il Grande (minuto 2:00):
“Oh Ciro, grande re, re dei re, re degli Achemenidi, re della terra dell’Iran, Shahanshah dell’Iran, io e la nazione ti salutiamo. Riposa in pace, perché noi siamo svegli e rimarremo sempre svegli.”
Mentre la voce dello Scià si diffonde a Pasargade, una tromba d’aria che prende la forma di una spirale di polvere, si alza dal sepolcro di Ciro. Il sonno degli antichi è disturbato, i fantasmi del passato si adirano.
“Noi siamo svegli.” Dice lo Scià.
Ma loro non sono svegli, stanno sognando la loro stessa vanità.
Federico Mosso